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Recovery: Italia ultima chiamata, Gardini, risorse per 4,2 mln nuovi occupati entro 2030

Tra il 2000 e il 2019 l’Italia ha perso 380 miliardi di ricchezza (pari ad almeno 10 leggi finanziarie in tempi pre Covid) rispetto alla crescita media dell’Area Euro. Nello stesso periodo l’economia del nostro Paese è cresciuta solo del 3,9%, contro una media degli Stati con la moneta unica del 26%. 
Nella fase più dura della crisi finanziaria, fra il 2007 e il 2013, l’Italia ha perso l’8,5% di Pil, contro l’1,5% degli altri Paesi. Negli anni tra il 2014 e il 2019 ha lasciato sul terreno 85 miliardi di euro.

«Occorre un via libera veloce ai cantieri, dice Maurizio Gardini, presidente Confcooperative  commentando il Focus Censis  Confcooperative "Recovery, Italia ultima chiamata" presentato oggi. "Tra DEF e Recovery abbiamo l’irripetibile opportunità di attivare, grazie agli investimenti, un effetto leva da 666 miliardi, creare 4,2 milioni di nuovi posti di lavoro e mettere il turbo alla nostra economia».

Infrastrutture e gap da colmare. 
L’Italia è il 9° Paese al mondo per export con 476 miliardi di euro, ma occupa solo il 21° posto nella classifica della Banca Mondiale sul Logistic Performance Index. 

«L’export ha rappresentato la ciambella di salvataggio per le ambizioni di sviluppo e di futuro di molte imprese, oltre che del Paese negli anni più duri della crisi. Per continuare a essere leva di sviluppo – aggiunge il presidente Confcooperative – occorre colmare il gap che ci separa dai principali competitor. Il ritardo infrastrutturale pesa per 60 miliardi di mancato export. Il made in Italy dall’agroalimentare alla moda, dal tessile all’aerospazio è un brand che identifica l’Italian style con l’eccellenza, ricercata e apprezzata in tutto il mondo tanto che l’Italian sounding, solo nel food, è di oltre 90 miliardi di euro».

Al vertice della classifica del LPI si collocano la Germania, seguita da Paesi come l’Olanda, la Svezia, il Giappone e Singapore. La perfomance complessiva dell’Italia è, invece, vicina a quella di Australia (19° posto), Norvegia (20°), Nuova Zelanda (22°), e Corea del Sud (23°). Il ritardo infrastrutturale in Italia tarpa le ali alle nostre esportazioni frenandole del 14%: una perdita secca di 60 miliardi l’anno per il nostro export. 

Recovery, Italia ultima chiamata per tornare a crescere. Una spesa in infrastrutture da 192,4 miliardi entro il 2030 dovrebbe generare un effetto da 666 miliardi e attivare occupazione per 4,2 milioni di persone. È come se potessimo disporre ogni anno di 61 miliardi aggiuntivi di prodotto e 383mila occupati in più. Un investimento che riguarda le infrastrutture di trasporto e, in proporzioni più contenute, interventi nel settore idrico e il programma di rinascita urbana. I risultati di questo “shock da domanda”, concentrato su spese destinate a opere di ingegneria civile, portano a quantificare in: 450 miliardi di euro gli effetti diretti (beni e servizi intermedi) e indiretti sulla produzione (attivando cioè il settore industriale, i servizi alle imprese, i trasporti, il commercio, ecc. nella fornitura di servizi e beni per la produzione); 216 miliardi gli effetti indotti sulla domanda (aumento di consumi di beni e servizi stimolati dalla maggiore disponibilità di reddito attraverso la creazione di nuova occupazione).

L’ultima versione pubblica del PNRR (al 12 gennaio 2021) riporta a 223,91 miliardi di euro l’importo complessivo delle risorse, comprendente risorse del Fondo Sviluppo e Coesione (FSC) 2021-2027, l’“effetto leva” di investimenti privati attivati dal Piano, un margine di sicurezza contro il rischio di non vedersi approvati tutti i progetti presentati da parte della Commissione Europea, la quota del Programma React EU.
Considerando che il 70% delle risorse del Piano verrà destinato a investimenti pubblici, per un valore pari a 156,7 miliardi di euro per il periodo 2021-2026, e provando ad applicare le ipotesi di fondo dell’analisi di impatto svolta dal MEF sull’ultimo Documento di economia e Finanza, lo “shock” da investimenti potrebbe portare a un effetto “leva” di quasi 200 miliardi in sei anni, ai quali aggiungere l’effetto “domanda” di 96,1 miliardi. In totale nel periodo si otterrebbe un incremento del valore della produzione complessiva (valore aggiunto e consumi intermedi) pari a 296 miliardi di euro e 1,9 milioni di occupati attivati (unità di lavoro a tempo pieno). 

Sud, digitale e green possono spingere il Pil dell’11,6%. Investire di più al Mezzogiorno spingerebbe dell’1% il Pil da 7,3 a 8,2%: Considerato il crescente divario fra Centro-Nord e Mezzogiorno cui si è assistito in questi anni, l’opportunità di indirizzare risorse e interventi del Piano alla ricucitura dei destini economici delle due aree del Paese appare quanto mai necessaria. Svimez ha formulato due scenari di ripartizione delle risorse del PNRR rispetto al Mezzogiorno: uno scenario “base”, con un’ipotesi di destinazione degli investimenti pari al 24%, in continuità con quanto è accaduto nel periodo 2014-2019, e uno scenario “rafforzato”, rispetto al quale la quota di investimenti al Sud potrebbe raggiungere il 50%.

L’ipotesi di partenza è l’allocazione all’interno del PNRR di una spesa per investimenti pari a 150 miliardi di euro per il periodo 2021-2026. Dalle analisi effettuate, lo scenario di base porterebbe a un incremento cumulato del Pil nei sei anni pari al 7,3% a livello nazionale e all’8,1% nel Mezzogiorno. Lo scenario “rafforzato” consentirebbe al Mezzogiorno un incremento di Pil a fine periodo dell’11,6%, in sostanza tre punti e mezzo di Pil in più di quelli previsti dallo scenario “base” (tab. 3). Da questa ripartizione delle risorse più favorevole al Mezzogiorno ne profitterebbe l’intero Paese con quasi un punto in più di prodotto interno lordo cumulato fra il 2021 e il 2026, grazie agli effetti indiretti sulla produzione del Nord e alla maggiore resa degli investimenti al Sud rispetto alla dotazione dello stock di capitale.

Prendendo come riferimento l’occupazione al terzo trimestre 2020, la missione Digitalizzazione coinvolgerebbe oltre 4 milioni e 580mila occupati, pari a un quinto del totale, mentre all’interno della missione Transizione ecologica ricadrebbero 2 milioni e mezzo di occupati, l’11,2% sul totale.

La somma degli occupati nelle due missioni supererebbe i 7 milioni, pari al 31,2% sul totale degli occupati al terzo trimestre 2020. Se letti attraverso la prospettiva delle tre priorità trasversali del Piano – donne, giovani, Mezzogiorno – i dati in percentuale segnalano la necessità di un maggiore impegno nei confronti della componente di genere (su 100 donne occupate 27 sono coinvolte nelle missioni, quattro punti in meno rispetto al dato medio nazionale), mentre rispetto al gap generazionale e a quello territoriale, il contributo delle missioni potrebbe essere sostanzialmente positivo: 40 giovani fino a 34 anni coinvolti nelle missioni su 100 occupati della stessa classe d’età e 37 occupati coinvolti nelle missioni per ogni 100 occupati nel Mezzogiorno.


Imprese chiamate a fare innovazione senza laureati, l’82% ha addetti con basso livello digitalizzazione.
La formazione di capitale umano, la propensione all’innovazione, la creazione di nuove conoscenze e competenze è l’altra faccia della sfida che ci attende nei prossimi anni per sfuggire alla parabola del declino. Anche in questo caso, come per le infrastrutture, la corsa è tutta in salita. I segni “meno” nell’ambito dell’istruzione – rispetto alla media europea e agli altri Paesi partner – sono noti e tutti di entità considerevole: solo il 19,6% della popolazione 25-64 anni ha un titolo di studio secondario superiore; il margine negativo è del 13,6% rispetto alla media europea, ma sale al 18% rispetto alla Francia e al 25% se ci si confronta con il Regno Unito. Sono 14 i punti da recuperare per la quota di giovani 30-34enni con titolo di studio universitario nel confronto con la media europea; 24 rispetto al Regno Unito, 20 rispetto alla Francia. 

Fatto 100 il numero delle imprese innovative con almeno 10 addetti 38 di queste non sono dotate di personale laureato. Fra le imprese più piccole – 10-49 addetti – la quota delle imprese innovative sprovviste di laureati sale al 43,3%. Solo al crescere della dimensione questa percentuale si riduce drasticamente: 13% fra le imprese nella classe 50-249 addetti; 2,9% nella classe con almeno 250 addetti. Fatto 100 il totale delle imprese con almeno 10 addetti, 82 di queste hanno un livello di digitalizzazione basso o molto basso e solo 13 impiegano specialisti ICT, figure professionali che fanno da volano nella digitalizzazione delle attività. (foto ImagoEconomica)